La linea sottile
Gabriele era seduto su una panchina nel cortile della mensa di via Dandolo. Pomeriggio d’estate romano, assolato, non er ponentino, la dolce brezza serale. Fissava un bigliettino di color azzurro, -di quelli per le riffe patronali -, mentre aspettava il suo turno. Sul foglietto c’era scritto a penna il un numero cinque, accanto ad uno stampato, il trentasette.
“Tra un po’ tocca a me”, infatti avevano iniziato a servire i numeri dal 500 in poi.
Gabriele da qualche tempo era divenuto uno come ‘quelli là’.
Il suo sguardo, in un automatismo involontario, si spostò dal bigliettino azzurro alle persone che sedevano accanto a lui. Definirle persone era già un riconoscimento. Cominciò a riflettere sul fatto che era circondato da quelli che la gente ‘normale’ considera scarti. Un tempo faceva finta di non vederli, come se il solo avvicinarli avesse potuto contagiarlo con il pericolosissimo germe della povertà.
Ora anche lui era ‘uno di loro’.
‘Poveracci’: italiani male in arnese, accattoni, zingari, straccioni, emigranti, rifugiati, barboni e nuovi poveri. Tutti fuori dagli schemi, quasi irreali… come un trans sudamericano di 160 kg che vive per strada e passa qui le sue ore migliori.
Gabriele si imbarazzò di fronte al pensiero, carico di pregiudizio, che fino a poco tempo prima era stato anche il suo. Aveva vissuto senza pietà: detestava ‘quelli là’, dal profondo del cuore, perché rappresentavano lo spauracchio, il monito del fallimento di una vita. Sembravano larve umane, segnate da tutte le negazioni delle qualità possibili. Sporchi, ignoranti, senza lavoro, indolenti, aggressivi, irrecuperabili. Pur senza averne mai conosciuto uno di persona, in passato aveva emesso la sua sentenza.
“Se lo sono cercato quel destino di merda!” E gli sembrava che non facessero nulla per tirarsene fuori. Non poteva tollerare che gente normale volesse e potesse vivere in quelle condizioni. Si scagliava verso chiunque alimentasse la loro non vita con elemosine o aiuti di altro tipo, che tacciava di sterile assistenzialismo.
“Ipocriti buonisti che contribuivano a degradare la città più bella del mondo per sentirsi a posto con la coscienza. Intanto i costi sociali li pagavano gli altri, quelli come lui, con le loro tasse!
Gabriele, nel dare i suoi spietati giudizi, dimenticava che, da libero professionista era uno dei tanti evasori fiscali.
Altro che bontà e carità cristiana: una perversione che alimenta chi vive da parassita.
Si accaniva, asserendo che la colpa del tracollo economico, finanziario, culturale, valoriale, era da imputare a quella gente là e ai buonisti ipocriti, che li foraggiavano.
Senza i ‘buonisti ipocriti’, ora che era diventato come quelli là, sarebbe morto di fame e di freddo nella macchina, che da un anno e più, era divenuta la sua nuova casa.
Un brivido freddo gli solcò la schiena dalla prima all’ultima vertebra, la più acciaccata.
Era stato un uomo ricco e di successo, affascinante e seducente, possedeva quello che tutti definiscono il carisma naturale del leader.
Gabriele aveva avuto tutto, eppure, ora, si trovava accanto a chi non aveva più nulla.
L’aveva sperimentato sulla sua pelle: bastava poco a oltrepassare la linea sottile fra il noi e il loro. Pochi stupidi errori, nessuno a darti una mano al momento giusto, e soprattutto, alcuni attimi decisivi dovuti a quella maledetta crisi…
Fino a qualche tempo prima era stato un esperto riconosciuto nel mondo della pubblicità, dal successo garantito. La carriera folgorante lo aveva portato fondare una grande azienda leader, nel settore che aveva curato famosi marchi. Se la passava bene, non solo dal punto di vista economico, ma anche sentimentale: una bella moglie e due figlie, che gli volevano bene.
A poco a poco il suo mondo, però, si sgretolò a causa del senso perverso di autoaffermazione, di egocentrismo, di volontà di primeggiare. Un uomo anche quando ha tutto sembra spesso cercare qualcosa che gli consenta di andare oltre, di possedere di più.
Gli errori esigono, talvolta, un prezzo carissimo da pagare.
Tutto in iniziò a crollare quando in ufficio fece di tutto per assumere una bellissima ventiquattrenne, senza curriculum, né formazione, né esperienza.
Si diceva: “Uno sfizio da quarantenne me lo potrò togliere, visto che non me lo sono mai permesso!”
Tutti gli associati gli diedero, giustamente, contro. Ma lui aveva deciso. La “segretaria” aveva capelli castani, schiariti da colpi di sole, lunghi e lisci sulle spalle, viso da cerbiatta, labbra carnose, seni morbidi e abbondanti, fianchi procaci, occhi verdi, sempre sgranati in uno sguardo innocente, risata argentina, il vizio di mordicchiarsi il pollice. Il ritratto della purezza, contaminata dall’ambizione. Un piacere averla accanto, sentirla parlare, ma soprattutto ridere: una bomba carica, pronta a esplodere e a lasciare un po’ di vittime ai suoi piedi.
Gabriele, che aveva vent’anni più di lei, iniziava a vedere impercettibili segni di decadenza sul suo fisico ancora aitante. Ma soprattutto iniziava a notare lo sfiorire del corpo della bella moglie. Iniziò una manovra serrata di avvicinamento e lei, che stupida non era, accettò di buon grado le attenzioni del datore di lavoro.
Per Gabriele la famiglia diventò un peso insostenibile, una serie di obblighi e di perdite di tempo; una fonte interminabile di frustrazioni e lamentele, una gabbia! Voleva essere felice, ma non accanto a una donna, che non sapeva amare più come un tempo.
A suo dire, infatti, il sesso con la moglie era poco e insoddisfacente, non più passionale e travolgente come un tempo, perché lei era sempre troppo stanca, troppo presa dai problemi di casa e del lavoro. Inoltre, le figlie, ormai adolescenti, succhiavano linfa vitale alla loro relazione, come due sanguisughe.
Gabriele diventava sempre più scorbutico e irascibile, sempre più chiuso e distante. Trascorreva ore ed ore a chattare con la nuova passione su un social network.
La moglie, che aveva sopportato in silenzio per il bene della famiglia, a un certo punto, esausta, esplose. La reazione lo mandò su tutte le furie. Divorato dai sensi di colpa, si scagliò con violenza sulla donna, che un tempo aveva amato, lasciandola a terra con il labbro spaccato da un sonoro ceffone.
Brutta cosa i sensi di colpa. Ti incatenano ad un angolo, con catene pesanti, lasciando il campo libero al logorio dei propri errori, trasformando l’uomo in una belva famelica pronta a scagliarsi contro le persone più vicine e amate nel vano tentativo di trovare pace. Impossibile ammettere il torto: l’unico modo per sopravvivere è alimentare la bestia con l’orgoglio, con l’unico risultato di rendere agli altri la vita impossibile.
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Gabriele fu costretto a lasciare casa, moglie e figlie.
“Poco male”, pensò all’inizio, “ora posso dedicarmi all’amore, che aspettavo da una vita”.
Fece le valigie e andò a stare dalla nuova fiamma. Per due settimane fu il paradiso. L’ammaliatrice era instancabile e passionale, non come la ‘vecchia’ moglie. Pensava che la sua era stata una non-vita e solo allora iniziava a vivere veramente… Sembrava un autentico riscatto, fino a quando un giorno, dopo aver fatto l’amore per tutto il pomeriggio, la bella passionaria improvvisò:
“Teso’, dopodomani parto per Amsterdam con un paio di amici: tu che fai?”
“Oddio, amore, mi cogli alla sprovvista! Dovrò prendere le ferie, devo fare il biglietto così su due piedi… Per quando devo prenotare il volo?”
La ragazza lo fissò incredula, senza trattenere una risata sguaiata:
“Ma sei scemo? Venire con me? Con i miei amici ad Amsterdam? Fai il serio, dai…”
“Come, scusa, non vuoi che venga con te?” Balbettò Gabriele, del tutto spiazzato.
“Certo che no! Mi rovini la reputazione, saresti solo una zavorra. Andiamo ad Amsterdam per divertirci, non per fare i turisti in una città d’arte. Siamo tutti single e con le peggiori intenzioni, non so se mi capisci…” Ammiccò, strizzando l’occhio in modo sexy…
“Va bene, amore. Vorrà dire che ti aspetterò qui”. Bisbigliò, sempre più incredulo e abbattuto.
“Sei troppo buffo… o stupido… non so cosa sia peggio. Non ti voglio a casa mia!” Disse, continuando a ridere a crepapelle, per l’ottusità dell’uomo. Altro che divario generazionale: non sarebbe bastato un corso di semiotica sistemica per rimettere i ruoli al posto giusto.
“Come non mi vuoi a casa tua? Siamo una coppia, ho lasciato mia moglie e le mie figlie per te! Ti amo con tutto il cu…”
“No, bello mio, nun ce provà! Hai lasciato tua moglie, perché era nà vecchia che non scopava più… Non darmi colpe che non ho. Io sono stata al gioco, perché era divertente ed eccitante, non perché ti amo. Mi piaci, ma sei vecchio, vai bene per qualche seratina… Non ti regge più la pompa, mica posso stare con uno che va’ avanti a zabaglione, per stare al mio passo…”
La verità, bruciante, sputata come un pugno in pieno volto, lo fece andare su tutte le furie. La rabbia montò, alimentata dal senso di colpa. Aveva abbandonato la famiglia per una donna simile… Come era stato idiota…
La bella giovane si ritrovò per terra con un labbro sanguinante, come la moglie.
Al contrario della moglie, però, che si era limitata a cacciarlo di casa, la bella senz’anima lo denunciò per violenza domestica, facendo sì che per Gabriele cominciassero i guai più seri.
La ragazza, per non portate l’uomo davanti al tribunale, volle una bella somma di denaro, come risarcimento fisico e morale; una somma che, dato lo scandalo, conseguente alla violenza contro la donna, nessun giudice gli avrebbe risparmiato.
Gabriele e soci dovettero pagare, e l’ingente esborso di denaro non preventivato, portò la società sul lastrico. Nessuna possibilità di quotazione in borsa, di strategie di rilancio, di ristrutturazione di logo e claim: la sua creatura si dissolse in un soffio.
Un altro grande errore fu investire il pochissimo denaro rimasto in azioni, per cercare di salvare il salvabile. Gli investimenti ad altissimo rischio di volatilità, fecero azzerare il capitale residuo. La società, con l’accusa di bancarotta fraudolenta, fu costretta in una seduta di tre minuti, davanti al tributarista, a licenziare i dipendenti. Il sogno di una vita era definitivamente tramontato.
Gabriele si ritrovò senza neanche i soldi per pagare l’affitto di un monolocale, – o meglio un camerone di 30 metri quadri, composto di tinello e bagnetto, separati da un letto -, in un residence di spacciatori, prostitute e residui vari di dolente umanità. Finì a dormire nella macchina. Non più il SUV nero metallizzato, ma uno ‘scassone’ di seconda mano, che gli aveva ceduto l’ex moglie in un momento compatimento.
L’auto era ferma in un parcheggio semi-abbandonato, dove non passavano vigili urbani, a controllare che l’assicurazione, scaduta da mesi, non era stata rinnovata. L’utilitaria era ridotta a cucina, letto, latrina… Era deciso a morire di fame e di freddo in quella macchina.
Dopo tutti i guai che aveva combinato e tutta la gente che aveva fatto soffrire, per appagare il suo egocentrismo, sentiva di meritare solo una morte indegna, abbandonato da tutti. Sarebbe riuscito nell’intento, se una sera, mentre tremava dal freddo, rannicchiato sotto una coperta di fortuna nella macchina, uno sconosciuto non avesse bussato al finestrino.
“Tutto bene?”
Gabriele si ridestò dal torpore, per vedere oltre il finestrino la gente, che lo fissava preoccupata.
“Tutto bene!” Bofonchiò, mentendo più a se stesso che a loro.
“Per fortuna! Perché non esce dalla macchina? Le possiamo offrire un panino ed una bevanda calda? Con questo freddo le possono far bene…” Insistette l’ospite inatteso.
Alla fine cedette all’invito dello strano sconosciuto, che gli offriva un panino e del latte caldo. Cose semplici, che a Gabriele sembrarono delle prelibatezze.
Quando si è sull’orlo della disperazione la parola di una sconosciuto fa la differenza…
L’ex pubblicitario fallito iniziò a fidarsi di ‘quella gente’, che l’aveva salvato da una brutta fine. Dopo le visite serali settimanali, in macchina, con panini e latte caldo, Gabriele venne invitato a recarsi, quando aveva fame, in un luogo che accoglieva tutti, senza problemi.
Così si era trovato alla mensa di via Dandolo 10, dove poteva trovare la cena sempre pronta. Poco distante da lì, a via Anicia, vi era un centro di accoglienza che distribuiva generi alimentare e vestiti. Rimase di stucco scoprendo che c’erano anche le docce calde, gratuite, con sapone e biancheria nuova per tutti. Pianse di nascosto al pensiero dei mesi in cui non era riuscito a lavarsi, se non al bagno del Mac Donald’s, dopo infiniti sotterfugi.
Lì aveva trovato anche un medico a cui aveva fatto vedere, dopo il timore iniziale, un’irritazione cutanea tipica di chi non può permettersi un’igiene personale sufficiente. “Niente di grave”, gli aveva risposto il dottore, “prova questa lozione per una settimana, poi torna da me per un controllo. Mi raccomando, ci tengo a vedere se sei guarito”.
La voglia di morire cedette presto il passo a quella di ricominciare. Aveva ricevuto aiuti da tante persone, verso cui provava profonda ammirazione e amicizia.
Assorto nei pensieri, non si era accorto che era arrivato il suo turno per poter entrare a mangiare. Luca lo richiamò alla realtà.
“Gabriele! Guarda che puoi entrare… ho capito che ti piace stare con noi, ma così farai raffreddare tutto!” Affermò, dandogli una pacca sulla spalla.
Luca l’aveva trovato semi-congelato in macchina quella fatidica notte. Aveva preso a cuore la sua storia, che per lui era diversa da ogni altra, ma in realtà si poteva considerare banale, diffusa, come gli aveva fatto notare l’amico. Le famiglie, infatti, si disgregavano sempre più spesso, inducendo i mariti a vivere per strada, e poteva anche capitare che, a causa della crisi, intere famiglie, un tempo benestanti, finivano nell’indigenza. I nuovi poveri, li chiamavano. Questa rivelazione, unita a tante altre, avevano contribuito a pacificare l’anima di Gabriele. Era riuscito a trovare un minimo di auto-stima e di fiducia per il domani.
“Allora, ti vuoi muovere?” Lo bacchettò, ironico, Luca.
“Adesso vado”, disse l’uomo, alzandosi dalla panchina e stiracchiandosi come un orso, che esce dalla caverna a primavera.
“Vai, che dopo ho una bella sorpresa per te!”
“Interessante… cos’è? Lo posso sapere?”
“No, è una sorpresa”, gli rispose Luca, strizzando l’occhio, mentre si allontanava.
“Mah! Se non siete matti qui non vi prendono …” Ironizzò, fra sé e sé, mentre andava a mangiare.
Gabriele gustò la cena in compagnia di commensali occasionali. Al suo tavolo c’erano una famiglia Rom con tanti bambini, due signori distinti che, ultimamente, non se la dovevano passare bene e il famosissimo trans sudamericano da 160 chili! Un tavolo così ben assortito non l’aveva mai visto prima; e, probabilmente, se l’avesse descritto in giro nessuno gli avrebbe creduto. Eppure questa era la sua quotidianità, non l’eccezione. In un momento storico così difficile solo i volontari della Comunità di Sant’Egidio potevano gestire tavolate così assortite.
Li si poteva definire angeli silenziosi: con una parola e un gesto umano, gratuito e raro, avevano salvato numerose vite come la sua. Da quando Gabriele aveva fatto pace con se stesso e con il mondo che lo circondava, la cena alla mensa era diventata più buona. Ma quel pomeriggio non poteva perdere tempo in speculazioni filosofiche, perché lo attendeva la sorpresa e la curiosità doveva essere appagata il più presto possibile. Si sbrigò a finire l’ultimo piatto, per uscire alla ricerca di Luca.
“Marina, hai visto Luca per caso?” Chiese a una delle responsabili della mensa. Marina non era una semplice responsabile, era l’unica capace di tenere a banda, con un solo sguardo, il più invasato degli ospiti, che si presentava alla mensa. Una donna forte e amorevole, che prendeva a cuore la vita di tutti gli ospiti.
“L’ho visto alle aule della Scuola di italiano”.
“Cavolo! Mi aveva promesso una sorpresa, ma se è impegnato a scuola vorrà dire che sarà per la prossima volta”, rispose deluso, mentre stava per andarsene.
“Mi ha detto di farti salire, ti aspetta lì per questa famosa sorpresa”, controbatté Marina.
Gabriele si precipitò di corsa verso le scale, che portavano alle aule, dove i nuovi europei studiavano l’italiano, saltando i gradini due a due. Alla fine della scalinata aveva il fiatone, ma divorato dalla curiosità, continuò a cercare il suo amico.
“Luca! Dove sei?”
“Nell’aula in fondo, sbrigati!”
Gabriele corse verso l’aula e si bloccò impietrito sull’uscio. Non riuscva a credere ai suoi occhi. Vicino a Luca c’era Silvia, la sua ex-moglie, che lo fissava commossa e silenziosa. La donna non disse nulla, sarebbe stato superfluo, allungò solo le braccia, per accogliere di nuovo Gabriele nella sua vita. I due si strinsero teneramente, con gli occhi lucidi dalla commozione. A Luca non rimase altro che andare via in silenzio, per non disturbare il loro momento, contento di aver contribuito, insieme a tanti altri, ad aiutare Gabriele a ritrovare la sua vita e la sua serenità.