Il lungo viaggio di Zelda Milk
Zelda Milk era una orfana afgana, che aveva vissuto per molto tempo in prossimità di una base militare americana, in uno dei territori demilitarizzati vicino a Nava.
Il suo nome non era afgano e, in effetti, non era neanche un vero nome. Rimasta orfana da piccola, Zelda era stata “adottata” dal personale militare di un campo profughi. L’ufficiale di turno l’aveva battezzata “Zelda”. Perché avesse scelto un nome così insolito non fu mai chiaro a nessuno. Era opinione di tutti che una bambina orfana non avesse molta speranza di vita da quelle parti e che non valesse la pena di “sprecare” per lei un nome serio.
La bambina non morì, crebbe, e anche bene. Con lo sviluppo divenne una bella ragazza dalle forme generose, così un gruppo di soldati americani, non si sa se più idioti o più annoiati, decise di “donare” il simpatico appellativo di “Milk” alla ragazza, in onore del suo seno.
Vivere in un campo profughi non era facile per nessuno, figurarsi per una giovane dalle forme procaci, che tutti chiamavano Zelda Milk. Dovette crescere in fretta, per non essere schiacciata dalla dura vita da rifugiata. A soli diciassette anni lottò per non finire sposa a un uomo di quarantacinque anni, che aveva deciso di “acquistarla” dalla persona che se ne prendeva “cura”. Per fortuna, almeno in quell’occasione, gli Americani servirono a qualcosa e il signore di mezza età dovette ritirare la “generosa” offerta, con non poco disappunto del tutore di Zelda.
La ragazza crebbe nella miseria più nera. Nonostante le mille difficoltà, conservò dall’anima gentile e molto materna. Aveva capito che per rimarginare le proprie ferite non c’era miglior rimedio che occuparsi degli altri, soprattutto se bambini. Come olio profumato su ferite brucianti, vedere un bambino sorridere gli donava un profondo sollievo. Per questo decise di prendersi cura di molti bambini, riuscendo a farsi affidare una tenda dagli americani, dove accoglieva gli orfani come lei. Da quel momento la sua tenda fu nota a tutti come ‘l’orfanotrofio di Zelda Milk’.
Un giorno, per motivi ignoti, gli Americani decisero di ritirarsi dall’Afghanistan. In fretta e furia abbandonarono tutto e tutti, lasciando gli abitanti del campo – profughi basiti.
In poche ore il caos piombò sul campo come un rapace su una preda. I più forti, senza più guardiani, iniziarono ad abusare dei più deboli, specialmente se si trattava di donne o bambini. Tutto questo durò finché non arrivarono i Talebani a riportare il loro “ordine”. In tanti acclamarono entusiasti i turbanti bianchi, sia perché erano paesani, sia perché si capivano meglio grazie alla cultura più vicina. Così i talebani imposero il loro regime senza troppe difficoltà.
L’inziale euforia per l’arrivo dei liberatori, presto venne rimpiazzata dalla disperazione per una sorte ancora peggiore.
Gli Americani non erano perfetti, ma in confronto alla brutalità dei Talebani, che di bianco avevano solo il turbante, sembravano angeli consolatori.
Zelda di religione non aveva mai saputo molto. Il fatto di essere donna e, per di più, orfana, non gli aveva permesso di essere edotta in questa disciplina. Ma era molto intelligente e scaltra, e aveva fatto amicizia con un vecchio Imam, anche lui profugo in quel campo, da cui aveva iniziato ad apprendere almeno le basi della loro fede, per evitare guai con la giustizia o, peggio ancora, accuse di blasfemia.
Per questo quando i Talebani iniziarono a proclamare la loro visione di una legge religiosa fatta solo di violenza, soprusi e prevaricazioni, Zelda rimase allibita.
Aveva appreso dal povero Imam una religione differente, più incentrata sull’amore e sul perdono, che sulla violenza e la dominazione.
Dopo aver fatto fuori i primi oppositori, i Talebani iniziarono a prendersela con le donne, imponendo loro una serie di divieti, obblighi e doveri, che resero la vita di Zelda difficile, se non impossibile, poi con le minoranze presenti nel campo. Iniziarono a deportare tutti i giovani Azara che venivano usati come schiavi.
La situazione era divenuta insostenibile. Ogni giorno i Talebani si recavano alla sua tenda per esigere il loro schiavo Azara quotidiano, senza che potesse protestare: essendo donna, sarebbe bastata solo una parola fuori luogo o una lacrima di troppo per venire lapidata come blasfema.
Zelda Milk decise di fuggire dalla sua terra e iniziare uno di quei così detti “viaggi della speranza”, insieme a tutti i suoi bambini.
Probabilmente si sarebbero feriti durante il viaggio, anzi sicuramente sarebbero morti tutti, ma almeno sarebbero morti liberi, lottando per un futuro migliore.
Zelda radunò tutti i 36 bambini rimasti, divise il minimo indispensabile per il viaggio in piccole bisacce e, sotto la luce delle stelle, partì dal campo profughi. Per fortuna gli Americani partendo di corsa avevano abbandonato molta attrezzatura da campo, così la giovane donna prese tutto quello che reputò di valore e lo vendette al mercato nero. Il fatto che fosse donna non gli permise di guadagnare tanto, ma riuscì comunque a racimolare i soldi necessari per iniziare il viaggio.
Non era facile spostarsi con tutti quei bambini, soprattutto perché molti erano Azara. Per fortuna un bambino cresciuto in un campo-profughi è più maturo e responsabile di un adulto occidentale, e questo permise loro di partire senza troppi problemi.
Il viaggio durò circa tre anni e fu molto difficile. Dei 36 bambini che partirono quella notte da Nava solo 11 arrivarono a destinazione, gli altri si “persero” semplicemente lungo il viaggio.
Da Nava arrivarono a Kandahar, dove si unirono, dietro lauto pagamento, a una carovana della speranza, che doveva passare il confine con il Pakistan ed arrivare a Quetta. Lungo il tragitto dovettero affrontare il primo grande ostacolo, che Zelda non aveva previsto, per il semplice motivo che non ne conosceva l’esistenza: il freddo glaciale!
Le montagne che costeggiavano il confine dei due paesi erano alte ed impervie, e nessuno di loro era equipaggiato per affrontare quel clima così ostile. L’unica cosa che permise a Zelda e ai bambini di non morire tutti sulle montagne fu il suo acuto senso dell’osservazione. Una bambina nata e vissuta in un campo profughi doveva imparare presto a interpretare ogni minimo segnale di pericolo, onde evitare di fare una brutta fine.
Grazie a quella intuizione morirono congelati “solo” sei dei suoi bambini. Una sorte peggiore toccò a molti degli altri componenti della carovana, che non avendo avuto lo stesso senso d’osservazione di Zelda, affrontarono la montagna in maglietta, pantaloni di tela e sandali, al posto delle scarpe.
Dal Pakistan, dopo una breve sosta di qualche giorno, si partì alla volta dell’Iran: una “dittatura” stabile poteva offrire opportunità di lavoro a giovani volenterosi. Per questo molti dei sopravvissuti alle montagne si fermarono lì, alla ricerca di lavori occasionali, tramite i quali far arrivare soldi alle loro famiglie. Il gruppo di Zelda procedette molto lentamente e si fermò per più di un anno e mezzo fra le città di Kerman, Esfahan, Qom, Teheran, Tabriz e Salmas. Avrebbe voluto fermarsi in Iran, ma il fatto di essere una ragazza, non troppo addentro alla religione musulmana, con dei bambini di varie minoranze etniche al seguito, creò tanti di quei problemi, che fu costretta a riprendere il viaggio, verso la Turchia.
Purtroppo però La Turchia, però, non era un paese ospitale con i clandestini e i carovanieri vollero un indennizzo maggiore per portarli su vie “sicure” al di là del confine.
In quell’anno e mezzo, nonostante Zelda e i suoi bambini, che tanto bambini non erano più, avessero lavorato tanto, non erano riusciti a racimolare i soldi sufficienti per intraprendere quel maledetto viaggio. I soldi servivano anche per sopravvivere, oltre che per viaggiare e Zelda dovette prendere una tragica decisione, che spezzò il suo giovane cuore.
L’unico modo per racimolare i soldi necessari per passare il confine, consisteva nel vendere la cosa più preziosa che possedeva.
Si dicono tante cose sulla prima volta che si inizia quel “mestiere”, ma nessuna penna e nessun psicologo potrà mai descrivere o spiegare veramente bene il dramma di una donna, che realizza di colpo, che è irrimediabilmente “sporca”.
Zelda riuscì a risparmiare i soldi necessari alla traversata. Ma purtroppo in quella notte a partire oltre con lei furono solo 20 bambini. In quell’anno e mezzo di permanenza in Iran, alcuni dei suoi bambini o avevano trovato altri gruppi con cui stare, o erano stati rapiti. Un bambino purtroppo, può divenire utile a cose: si può venderlo, farlo lavorare, farne ricambio per organi, e tante altre vicende innominabili.
Iniziò così questo nuovo viaggio, che non fu più facile del primo, ma che doveva portare in Turchia, una terra, più civile. Di civile, in realtà, la Turchia non aveva nulla, almeno non per gente come loro. Appena arrivati a Van, infatti, il drappello di disperati fu abbandonato dai carovanieri, che vedendo le jeep della polizia arrivare, si diedero alla fuga. Furono accerchiati, come in uno dei vecchi film che i soldati americani amavano vedere nel suo vecchio campo profughi. Tutti si diedero alla fuga, in formazione sparsa. Zelda cercò, invano, di rimanere unita ai suoi bambini, ma purtroppo anche in quella occasione ne perse cinque.
Zelda le lacrime le aveva perse nei pressi di Qom, in Iran, per cui non né versò neanche una, ma come le altre volte, si limitò a radunare i 15 bambini che gli erano rimasti, per dirigersi verso Ankara. Passò alcuni mesi in clandestinità, sempre con la paura di essere arrestata. e apprese che solo in Europa vi erano speranze per gente come lei, con un passato da dimenticare e senza futuro. l’Europa era la terra promessa, dove tutti si volevano bene, dove si viveva in pace, dove il tenore di vita era alto e ci si aiutava a vicenda. E tra tutti i paesi d’Europa, c’era il Bel Paese, di cui anche gli Americani parlavano molto bene.
Zelda prese una decisione importante: avrebbe portato i suoi bambini in Italia!
Iniziò un nuovo periodo, di privazioni e umiliazioni, nell’intento di racimolare i soldi necessari per portare in Italia i suoi bambini. Anche stavolta passarono più di un anno, fra Ankara e Ayvalik, nella speranza di non essere arrestati, mentre lavoravano per mettere da parte i soldi.
La partenza era prevista dalla città di Avalik, verso Militene. La barca, se si poteva chiamare cosi, non era in grado di affrontare il mare aperto e, quindi, si sarebbe diretta verso Atene.
Da Atene, a piedi, avrebbero proseguito fino a Pilos, dove si sarebbero imbarcati, forse in uno scafo migliore, per tentare la traversata in mare aperto verso le coste siciliane.
Questo era il programma offerto dal “tour operator” di turno. Un bellissimo viaggio nelle radici della cultura ellenica.
Le cose ovviamente non andarono per il verso giusto fin dall’inizio. I carovanieri avevano caricato più gente di quella che la “zattera” poteva sopportare e, durante il viaggio, buttarono in mare alcuni passeggeri. Per loro si trattava di normale amministrazione, per cui nessuno si lamentò, intuendo che avrebbero potuto fare la stessa fine.
Finalmente arrivarono ad Atene, o meglio nei pressi del porto del Pireo, visto che se la Turchia non era tenera con i clandestini, la Grecia lo era ancor di meno. Infatti, i carovanieri si preoccuparono di mettere in guardia i passeggeri, da una organizzazione, nata da poco, che si faceva chiamare “Alba dorata”, particolarmente dura con gli stranieri in generale e con i clandestini in particolare. Questa raccomandazione, data più per evitare guai, che per autentico interessamento, salvò la vita a Zelda e ai suoi bambini, quando, una notte, incrociarono una ronda di “pulizia”, che uccise di botte uno del loro gruppo, che era stato meno attento degli altri.
Per fortuna il soggiorno nei pressi d’Atene durò poco e, dopo un paio di giorni, la carovana riprese il viaggio a piedi verso Pilos.
Zelda, ormai, aveva perso la cognizione sia del tempo, che dei kilometri percorsi. I piedi le si erano deformati, per i lungi viaggi in zone impervie, e, soprattutto, si era deformata il suo animo.
Bruciato dal dolore e schiacciato dalla fatica, era diventato irriconoscibile. Era il pedaggio che si doveva pagare per la libertà… o, forse, quello che lei si era imposta di credere.
La sera il mare era molto calmo e tutti salirono, in silenzio, sulla barca, per lasciare le coste della Grecia. Il viaggio fu lungo e pericoloso, anche perché i “coccodrilli” non aspettavano altro che qualcuno si sporgesse per azzannarlo.
Grazie al cielo, almeno in quell’occasione, di coccodrilli non se né vide neanche uno: ci furono, però, nemici ben peggiori: la sete, il sole e la fame fecero molte vittime.
E, alla fine, il nemico più spietato, a sorpresa, si rivelò l’uomo. Di recente il governo italiano aveva approvato una legge per impedire altri sbarchi sui suoi territori, il decreto era noto solo ai traghettatori.
La legge in questione, tra l’altro, prevedeva che le navi da guerra italiane dovessero intercettare le zattere cariche di clandestini, per rispedirle al mittente.
Fu così che, arrivata in acque italiane, la piccola imbarcazione fu avvistata prima da un elicottero, poi da un cacciatorpediniere della gloriosa Marina Militare italiana. Gli scafisti abbandonarono la nave su un gommone d’emergenza, lasciando la barca carica di disperati alla deriva. La gente iniziò a urlare e alcuni si gettarono in acqua. Zelda radunò i quindici bambini rimasti, per evitare che venissero calpestati, o peggio, spinti in acqua dalla folla.
Per fortuna all’orizzonte si materializzò un’immensa nave d’acciaio. Lo scafo rappresentava la salvezza. Tutte le persone a bordo iniziarono a inneggiare ai loro salvatori, un clandestino particolarmente zelante, per semplificare le procedure di attracco, pensò di andare al timone, pur non sapendolo usare, per portare la “bagnarola”, fino a quella nave bellissima, che si chiamava “Luigi Durand de la Penne D560”.
Il timonerie in erba sbagliò qualche manovra e la barca, invece di decelerare, aumentò la velocità. Una voce proveniente dall’immensa nave d’acciaio intimò qualcosa in una lingua a loro sconosciuta. I profughi non seppero cosa fare, se non cercare di far rallentare la maledetta bagnarola. La voce, la seconda volta si espresse anche in inglese, ma furono pochi a capirla, fra i ‘pochi’ Zelda, che impallidì.
“FERMAAAAAAA!” Fu quello che riuscì ad urlare, anche se nessuno, fra il rumore del mare e delle urla, la sentì.
La voce diceva: “Siamo della Marina Militare Italiana Fermate immediatamente l’imbarcazione e ritornate indietro, altrimenti saremmo costretti ad aprire il fuoco, perché state forzando i confini italiani!”
Fedele alle promesse, la grande nave italiana dal nome così altisonante, visto che nessuno capiva cosa intimasse, aprì il fuoco.
L’ultima cosa che Zelda vide fu un muro altissimo d’acqua, che si alzò sulle loro teste, gli ultimi rumori furono un rumore assordante e i suoi bambini che piangevano…
Ripescarono vivi undici dei quindici bambini che erano con lei. Degli altri, Zelda compresa, non si ritrovarono neanche i corpi.
Il viaggio della giovane coraggiosa donna si interruppe ad un passo dalla meta…