Irriverenza – Storia di Jeppy
De Nicola Giuseppe, classe 1970, per tutti Jeppy ha occhi verdi, naso bitorzoluto, fisico aitante, capelli lunghi, fin troppo brizzolati, dentatura irregolare, un sorriso sbilenco, bizzarro e magnetico. Un tipo allegro e strafottente, forse anche troppo allegro, spesso irriverente uno di quei romani a cui piace avere sempre l’ultima parola. Il rappresentante di un genere che non sarà mai in via di estinzione, che ti deve convincere, a tutti i costi, che il Colosseo è quadrato, con una spacconeria che, alla fine, può risultare vincente.
“In vita mia me so’ sempre fermato cinque minuti prima de inzià a sudà.”
Un po’ gaglioffo, un po’ fifone, mezzo ispirato alle macchiette di Alberto Sordi, greve quanto basta, amatore impenitente (più nelle storielle vantate con gli amici che nelle storie vere), e capace di moti di generosità, che tiene ben nascosti, per non rovinarsi la reputazione.
“Nun c’ho mai avuto paura de gnente”.
Evita di scontrarsi con i forti, si reca nei posti giusti per incrociare la gente che conta e far finta di vivere al centro di un orbita in cui brilla, come satellite, di luce riflessa. Incurante delle umane considerazioni, ha l’aria sciatta, per fingersi un pò filosofo, nasconde una sana dose di cinismo ed evita di baciare le mani perfino alle belle donne, figurarsi ai Monsignori.
“Nun me so’ mai inchinato davanti a nisuno ‘n vita mia!”
Spavaldo, anche se ha una foto in tinello, che lo potrebbe smentire. A otto anni era un bambino rasato e paffutello, vestito da fratino, in ginocchio davanti al tabernacolo. Ma si trattava del giorno della Prima Comunione a San Giovanni e il bel mondo non era entrato di certo a curiosare nella sua vita, quella dell’appartamento a Centocelle, due camere e cucina, dove abita tuttora, e cerca di farsi vedere il meno possibile, vista la sentenza di sfratto esecutivo per morosità.
Jeppy sbarca il lunario: con molta faccia tosta e grazie alla benevolenza di alcuni cuori teneri. Da molti anni, a causa dello sfratto, vive in perenne movimento per le strade di Roma. Ovviamente ama ripetere che la scelta è stata sua.
“‘Na casa è ‘na miseria, a mme, solo Roma mia me po’ bastà pe’ stacce largo.”
La strada è diventata la sua casa come per molti prima di lui, per una serie di ragioni avverse: un matrimonio fallito fin dall’inizio, con una donna che non l’aveva mai capito; la crisi, che l’ha lasciato senza lavoro e tante altre piccole vicissitudini.
Per il carattere così esuberante si è subito fatto conoscere, diventando un punto di riferimento per molti come lui. Agli occhi dei benpensanti rimane uno sbandato e un randagio. Sopravvive con piccoli espedienti: l’elemosina; le mense popolari gratuite; la collezione di tessere della Caritas, del Circolo San Pietro; le case di accoglienza, le Parrocchie e gli infiniti altri centri benefici, di cui Roma, per fortuna, non difetta. In un libretto segna i giorni e le ore di tutti i centri di accoglienza. Grazie all’indole allegra e irriverente. Risulta molto abile a rimediare qualche spicciolo e un pasto caldo. E spesso divide con gli altri quello che riesce a racimolare, senza darlo a vedere, per fingersi un burbero.
“Se va avanti uno a ‘sto mondaccio boja, annamo avanti tutti” E’ il suo modo per affermare che l’unica arma vincente rimane sempre la solidarietà.
Una mattina, come tante, Jeppy si trova accucciato in una traversa di Via del Corso a chiedere l’elemosina. Un viale centrale ricco, pieno frequentato da turisti facoltosi, che spesso lasciano laute mance. Senza apparente interesse, un po’ sonnecchiando, un po’intonando uno stornello di Alvaro Amici, rimane all’imbocco della grande via. Di gente ne passa molta, ma non tutti sono adatti; aspetta la preda migliore. Da esperto felino della savana urbana si é messo a scrutare ogni singolo passante. Il tempo passa lento nel caldo pomeriggio di primavera.
“Tanta ggente, ma nun se fa robba pe’ gnente …”
Quand’ecco apparire all’orizzonte la preda perfetta!
Una donna sulla cinquantina, florida per non dire giunonica, abbigliata con abiti griffati; ingioiellata da far ribrezzo; con una stola di visone anni ‘50 da far immolare, seduta stante, uno stuolo di animalisti e un paio di occhiali intonati al resto della tragica mise. Insomma: se il ricco epulone avesse avuto una sorella, sarebbero stati gemelli…
Il gattone abbozza un sorrisetto sardonico: con una del genere ci sarà da divertirsi.
Senza darlo a vedere attende al varco la riccona. Appena la ha a tiro, con un’espressione maliarda esclama: “A bella dama, nun è che c’avrebbe du’ spicci pe’ ‘sto poraccio?”
La “bella” dama rimane impietrita da quella richiesta diretta, così inopportuna e volgare.
“Ma come si permette di chiedere dei soldi? Non si vergogna? Vada a lavorare invece di importunare la gente onesta come me, che si guadagna il pane col sudore della fronte!” Bela, acida, la matrona stizzita.
Assuefatto ai numerosi dinieghi della “gente perbene”, carica di sacchetti dello shopping, Jeppy ha in repertorio svariate risposte per quei ‘cortesi’ dinieghi. Ma quella risposta, così carica di pregiudizio lo disorienta per un attimo. Un “no” si accetta, ma un disprezzo così palese è intollerabile. Opulenta com’é, la signora cosa ne può sapere di come si finisce per strada! La condanna ferisce più di un pugno.
“Ma come te permetti de schifamme?”
“A signò, ma che cazzo me stai ‘a di’?”
La matrona teme il peggio e, terrorizzata, volta le spalle al mendicante.
Jeppy capisce di aver esagerato. E’ stata cattiva, ma questo non giustifica una reazione cafona e arrogante peggiore della sua.
“No signò, me scusi tanto, ma forse non ha capito come stanno le cose…” cerca di recuperare.
La megera mantiene il suo piglio ed esclama: “Ah, no? E quale sarebbe il punto, di grazia? Me lo vorrebbe spiegare?” La voce torna acida e tagliente.
“Vede, signò, er punto sarebbe che dovrebbe ringrazia’ ‘li poracci come noi!”
“E perché la dovrei ringraziare?”
“Signò, lei se po’ gode i sordi sua sudati, – per essere più credibile si passa una mano sulla fronte -, perché ce stamo noi a falle capì come so’ importanti. Penzi ‘n po’a un mondo addove tutti so’ impaccati de sordi… sai che noia! Poi a lei chi je lo spiegava quant’è bello esse ricchi… Nun so se me so’ spiegato, signora mia bella!”
“Sinceramente non la seguo” E’ la timida obiezione.
“Annamo bene”, sibila, simulando frustrazione, con un sorriso sornione. “Noantri ce stamo pe favve capì come sete fortunati. Si eravamo tutti uguali, nun ce se capirebbe più ‘n emerita mazza!”
“Quindi? Cosa dovrei fare per ripagare questo suo indicibile sforzo dialettico?” Ribatte la riccastra, in tono provocatorio.
“Gnente de più e poco de meno che damme du’ spicci, Madama Doré!”
“Alla fine vede che cerca solo vile denaro! Si dovrebbe vergognare della sua grettezza!”
“Certo signò, me ce vergono ogni giorno… ma lei?”
“Io? Perché mi dovrei vergognare? Non faccio mica la pezzente e non infastidisco di certo i passanti!”
“Mica pe’ er fatto de’ du’ spicci sputati. Eh, ched’è, sta’ avvelenata de’ sordi! Ce giudica a noi morti de fame… Facci puro come je pare, ma nun po’ fa mica ‘a padrona co’ la vita dell’artri. Mica ce lo sai perché sto qui a magnà la porvere pe’ abbuscamme tre lire da ‘na una come te! Pe’ ogni riccona che s’engrassa s’affameno dieci poracci in cerca de carità!”
La signora rimane stupita, per la prima volta inizia a capire chi sono veramente i barboni così fastidiosi, che degradano le vetrine centrali della capitale del Bel Paese.
“A signò, nun se preoccupi, vadi pure ‘ndo deve annà, nun li vojjo li sordi sua!”
La matrona, senza aggiungere nulla, si gira e prosegue per la sua strada, ma mentre si volta di scatto, un biglietto rosa, per caso, vola nel cappello messo a terra a raccogliere le elemosine.
Jeppy vede la banconota rosa, che si adagia sul fondo del suo berretto sdrucito. Non fa un fiato, solo un largo sorriso alla ricca signora, che di rimando, accenna, complice, anche lei un piccolo sorriso.
Bonissima grazia de ggiustizia divina! Vor di’ che ce sta davero Quarcheduno lassù che me vole bene!
La sera, nello splendido palazzo che affaccia sull’angolo di via del Corso, la riccastra, che mangia sempre sola, (oltre ai soldi non ha altri compagni di vita), non si sente inutile come al solito. Avverte un brio che non provava da tempo. E’ euforica, quasi felice, così piena di energia, che decide di mandare la cuoca e la cameriera a riposare e prepararsi da sola un bel sartù di riso, come faceva la nonna a Natale, quando lei era bambina. Un piatto che, da tempo non cucinava più, perché sembrava aver perso il sapore speciale della festa, anche se la ricetta rimaneva quella gelosamente tramandata in famiglia.
Quella sera, il piatto riesce particolarmente bene, e la ricca signora gusta la cena più buona della sua vita!