Un giorno come tanti
24 aprile 1915, all’alba, nel cuore dell’antico quartiere di Sultanahmet al centro di Istanbul.
La brezza di vento sul promontorio su cui svettava una grande moschea di fondazione imperiale si era chetata, fino a trasformarsi in una bava sottile. Da quel punto dominante ogni angolo del centro storico sembrava brillare, riflesso dalle onde del mare.
In città il vento era costante, e tirava le vele dei caicchi, che in moto perpetuo facevano la spola tra le due sponde del Corno d’Oro, tra la riva d’ Europa e quella d’Asia e i suoi mille tragitti filamentosi, fino alle isole di Marmara, ai Dardanelli e al mare più vasto.
Era una calda giornata di primavera, il tempo scorreva lento, quasi immobile, in attesa dell’estate torrida. Gli abitanti si aggiravano per le vie della metropoli, capitale dell’Impero Ottomano, cercando di sbrigare le proprie faccende. Quel giorno però, a differenza di altri, nell’aria si percepiva qualcosa di diverso: un odore strano, l’assenza del vento, le sirene marittime attutite e i passanti inquieti ben oltre la solita frenesia commerciale levantina. Gli anziani erano certi: stava per accadere qualcosa di orrendo, anche se nessuno avrebbe potuto immaginare la realtà.
Andrea Kuciukian, anziano armeno, originario della città di Mardin, aveva vissuto in prima persona i massacri del 1894 e si sentiva particolarmente nervoso. L’atmosfera così innaturale gli ricordava gli inizi della strage del 1894-1896, quando furono trucidati senza pietà più di 30.000 armeni. Avvertiva una sensazione simile, un vago presagio come cappa pesante. Sperava di sbagliarsi, perché nella grande e civile Istanbul regnava il diritto e non la legge del più forte. Neanche Abdul Hamid, l’armenovoro, aveva osato tanto; aveva lasciato in pace gli armeni residenti nella capitale, più che altro per paura dell’opinione pubblica e delle potenze straniere, che lì avevano le loro influenti, sedi diplomatiche. Andrea Kuciukian si era traferito a Istanbul, perché temeva che prima o poi i Turchi ci avrebbero riprovato e, per non correre rischi, era andato nell’unico posto sicuro di tutto l’Impero Ottomano.
Si stava dirigendo verso il Patriarcato armeno: aveva bisogno di dialogare con qualche prete. Angosciato, aveva un respiro affannoso, come un enfisema che spezzava parole e pensieri. Voleva parlare col capo cantore dalla voce angelica, padre Komitas, che l’avrebbe saputo comprendere. Lentamente, vicolo dopo vicolo, si dipanava la matassa di percorsi obliqui, nei quali miriadi di uomini, di ogni condizione, si muovevano come naufraghi alla ricerca di un ricetto sicuro. Si era diretto dall’antico quartiere armeno di Samatya, verso il declivio dolce, oltre le mura marittime. Deviò, dopo una lunga e penosa camminata, verso Kumkapi, altro cuore storico della presenza armena ad Istanbul. Dai vicoli si scorgeva la mole neoclassica, rassicurante, candida della chiesa patriarcale. Mentre era in cammino notò un fatto strano: per le strade, a ogni incrocio si aggiravano guardie, in gruppi di sei, che mostravano chiari segni di nervosismo. Provò ad accelerare il passo, per quanto gli permettevano le gambe malferme, ma ancora massicce di ottuagenario.
Svoltato l’ultimo angolo, così stretto da sembrare cieco a un occhio inesperto, si bloccò di colpo e si tramutò in una statua di sale. Di fronte alla porta di casa di una nota famiglia di notabili armeni si era radunato un drappello di poliziotti armati di fucili. Il cuore gli galoppava come un cavallo imbizzarrito e, nella mente gli balenarono mille pensieri in un istante, uno peggiore dell’altro; fece appena in tempo a scantonare dietro l’angolo del vicolo, prima che una delle guardie si voltasse e lo interpellasse. Bloccato dalla paura, con le spalle al muro, l’anziano armeno rimase ad ascoltare, impotente, pregando che nessuno lo scoprisse.
“Aprite immediatamente la porta o sfondiamo!” Fu l’ordine perentorio di uno dei poliziotti.
Seguirono quattro possenti colpi sulla porta di legno di faggio, poi, di nuovo, l’ordine di aprire la porta, condito di bestemmie e di urla.
“In nome del governo di sua Maestà Imperiale, se non aprite immediatamente procederemo con i nostri mezzi e non sarà più fatto salvo il diritto di asilo!”
“Per l’amor di Dio, non fate nulla di avventato! Stiamo arrivando all’uscio…” Risuonò una voce di donna spaventata, dietro il massiccio portone.
Si materializzò una governante sulla cinquantina, leggermente in carne, con i capelli raccolti in uno chignon e un largo vestito color carta da zucchero, di buon gusto europeo. Era terrorizzata, aveva le mani, intrecciate all’altezza del petto, che non smettevano di tremare. Si guardava in giro, come se avesse paura che, da un momento all’altro, tutto il mondo intorno potesse essere ingoiato da un’entità maligna. La casa, dall’ingresso visibile dalla porta socchiusa, anticipava un interno lussuoso, che indicava lo stato sociale dei suoi residenti. Gli armeni erano fra i più benestanti, sia delle varie comunità cristiane, che musulmane. Commercianti industriosi e abilissimi artigiani, più di una volta erano stati presi di mira dalla autorità turche proprio in virtù del loro ingegno. L’invidia e l’avidità rendono l’uomo feroce più delle bestie.
“Agente, in cosa posso esserle d’aiuto?” Azzardò, con un filo di voce, la donna intimorita.
“Casa di Avetìs Bagradiàn?” Sputò, sprezzante il capo – pattuglia.
“Sono la domestica… in cosa le posso essere utile?” Provò a sviare, nella speranza che si trattasse di un malinteso.
“Dove si trova il padrone di casa?”
“Al lavoro, effendi.”
“Quanti figli del proprietario abitano in questa casa?”
“Cinque in tutto, eccellenza! Due maschi e tre femmine…” rispose, sempre più strozzata dal timore…
“Sono tutti in casa all’istante?”
“Certo, maresciallo” rispose ancora la donna, con le lacrime agli occhi, senza trattenere i sentimenti.
“Li raduni immediatamente davanti alla porta. E’ un ordine inderogabile. Dovete seguirci tutti in caserma per accertamenti sul vostro stato!” Urlò in modo secco la guardia.
Alla povera donna sembrò che il mondo cadesse sulle sue spalle. Non aveva la forza di chiamare la padrona di casa, che tremava dietro lo spesso tendaggio, nella salle à manger. Non si trattava di avvertimenti, o di un bieco tentativo di estorsione, non insolito. Volevano loro, le persone, la carne viva. Contati, incolonnati, da portare subito via. La dama armena sapeva che nel momento in cui sarebbe uscita dal nascondiglio, offerto dal tessuto di pregevole manifattura fiorentina, non avrebbe più potuto sperare in alcuna difesa. Che il primo passo fuori dalla porta sarebbe coinciso con l’abbandono di tutto, con la spoliazione definitiva. Questo sentimento atavico si respira, come la paura, solo nelle case di famiglie abituate da secoli alle persecuzioni: una coscienza di pericolo e debolezza, che rimane per sempre viva in un angolo della mente. La donna decise di conservare la dignità della sua condizione. Uscì fino alla soglia del portone, accanto la governante.
La cameriera, dal canto suo, non riusciva a immaginare cosa potesse succedere. D’istinto si guardò alle spalle all’arrivo della padrona, nel vano tentativo di nasconderla, proteggerla. La gran dama avrebbe voluto urlare ai propri figli di scappare, ma il buon senso ebbe il sopravvento sull’istinto, si limitò a chiedere, timidamente, spiegazioni.
“Ci sono giunte voci di una imminente rivolta armena. Per questo stiamo perquisendo tutte le vostre abitazioni in cerca di armi per gli attentati. Se siete estranei ai fatti, tornerete alle vostre case; se siete coinvolti pregherete il vostro Dio di non essere mai nati. Non ci sarà pieta per chi si rivolta contro il governo del Sultano…”
“Non abbiamo nulla a che vedere con quello che dite! Ve lo giuro su quello che ho di più caro al mondo, credetemi!” Sussurrò la donna, in lacrime, inginocchiandosi ai piedi del militare.
“Lo appureremo fra poco… Chiami i suoi figli e incolonnatevi senza opporre resistenza!”
Una terza voce femminile, più gaia e leggiadra, emerse dalle profondità della casa.
“Mamma, cosa sta succedendo?”
Una ragazzina, di poco più di sedici anni, apparve sull’uscio. Aggraziata, molto avvenente, dall’andatura composta. Indossava un vestito giallo canarino di ottimo taglio e aveva lunghi capelli castani, raccolti in una coda di cavallo. La madre la guardò con disperazione.
“Iskuhì, vai a chiamare i tuoi fratelli. Sbrigatevi, dobbiamo seguire i signori fino alla caserma…”
La fanciulla guardò con angoscia la madre, intuendo la gravità della situazione, ma reagì con calma, mettendo in risalto una maturità maggiore della sua giovane età.
“Subito, signora madre, vado subito.”
Pochi minuti dopo la ragazza uscì con in braccio un bambino di poco più di tre anni, seguita da un ragazzino di dodici anni, una bambina di circa dieci e un maschietto di otto anni. Tutti e cinque, anche il più piccolo, in braccio alla sorella maggiore, seguirono in silenzio la madre, che veniva condotta dai poliziotti verso un camion, parcheggiato nella piazza di fronte. Il vecchio Andrea, dal suo nascondiglio, riconobbe molti armeni amici sul quel camion, ammassati ad aspettare di essere trasferiti alla caserma di polizia. Avevano occhi di prigionieri, carichi di terrore. Per gli armeni dell’Impero Ottomano il futuro era sempre sembrato incerto, ma ora, forse, temevano un epilogo drammatico.
Sul camion vi erano tanti uomini, alcune matrone dignitosissime, bambini zitti in maniera innaturale o che piangevano come ossessi. I soldati rastrellavano tutti gli armeni, in cerca dei presunti sobillatori. Andrea ebbe un moto di rabbia misto a frustrazione: come vent’anni prima si trovava inerme ad osservare la sua gente che veniva deportata. Uno dei prigionieri osò chiedere a una guardia:
“Dove ci portate, effendi? Perché ci avete arrestati?”
“Silenzio, feccia armena! Esseri rivoltosi e infidi, risponderete dei vostri reati!” Esclamò la guardia, colpendo sul viso, con il calcio del fucile, il pover’ uomo che aveva osato lamentarsi.
Andrea non aveva più dubbi: il drago famelico annidato nei meandri della Sublime Porta aveva risollevato il capo assetato di sangue, pronto a saziarsi di nuovo. Corse con le residue, umili forze al Patriarcato, verso padre Komitas, prima che fosse troppo tardi. Arrivò ansimante per il grande sforzo: le guardie non erano ancora sul posto. Entrato nel cortile della grande Basilica, si diresse alla porticina laterale della canonica, e iniziò a picchiare disperatamente il battente.
“Vartapet, la prego! Mi apra subito, sono Andrea… è urgente!” Urlò con tutto il fiato che gli rimaneva.
Il prelato aprì la porta e il vecchio non riusciva più a parlare per il grande sforzo compiuto.
“Calmati, amico mio. Entra e siediti. Che ti è successo di così sconvolgente?” Disse l’uomo, mentre gli porgeva un bicchiere d’acqua.
Andrea bevve in un solo sorso, attese qualche secondo per sedare lo spasimo, e scoppiò in un pianto disperato:
“Sono ricominciati i massacri!”
L’artiglio feroce della bestia nera e rossa dilaniò lo stomaco del prete. Per un momento si sentì venir meno…
Il vecchio, vedendolo ammutolito, scosse il sacerdote, implorando una spiegazione.
“Perché, Padre? Perché tutto questo? Perché di nuovo?” Gridò, portando le mani al viso…
“Solo perché siamo Cristiani. Portiamo sulle spalle il nome e la croce di Gesù! Solo per questo figlio mio, solo per questo…”
Non riuscì ad aggiungere altro, furono interrotti da colpi violenti alla porta della canonica.
“Polizia! Aprite immediatamente la porta, in nome del nostro sultano Maometto V”.
La brezza marina scompigliava i capelli dei passanti, che avevano le mani legate o i polsi assicurati da manette rinforzate. Le donne, bellissime, con le capigliature arruffate dal moto perpetuo degli aliti marini, così familiari, così dolci nella mattina di primavera ubertosa, preludio alla stagione della raccolta, dell’abbondanza, sembravano già sfiorite. Non c’era ancora il caldo matto, indiavolato, il sole spietato dell’estate, che li induceva a spostarsi all’isola di Prinkipo (in turco Büyükada, grande isola) o a Proti (in greco la Prima, in turco Kınalıada isola dell’henné, dal caratteristico colore rosso), dove avevano le case di villeggiatura invidiate dalla borghesia cittadina. Per quell’anno, e per decenni ancora, le dimore estive sarebbero rimaste vuote, abbandonate, oppure occupate dalla milizia, con i cadaveri ammassati alla rinfusa, rigettati sulla risacca dopo un naufragio. Oggi quelle ferite non sono più visibili: la città ha mutato pelle, conservando solo in qualche angolo nascosto quel sapore di tempo sospeso.
Il 24 aprile 1915 aprì un lungo periodo di dolore: morirono più di 1.500.000 cittadini dell’Impero Ottomano a opera della polizia e delle squadre di assassini, solo perché avevano la colpa di essere cristiani, solo perché armeni.